Altro mio articolo sul Sole, uscito oggi, che mi sembra pertinente.
A vent’anni, quando mi facevo le ossa nella ricerca accademica, i miei ambiti d’intervento erano logica e filosofia del linguaggio. Ambiti che io, da ingenuo e inesperto puledro di scuderia, consideravo limitrofi, comunicanti, governati da un pacifico accordo. Di tanto in tanto, a dire il vero, affioravano dissonanze; una, in particolare, turbava me e i miei colleghi, abituati a un sacro rispetto per i sistemi formali (il nostro nume tutelare, Corrado Mangione, era un matematico). Negli scritti di importanti filosofi del linguaggio anglofoni trovavamo continui riferimenti alle intuizioni del parlante e ci chiedevamo: «Che c’entrano le intuizioni?», «Non sono le intuizioni un fondamento troppo labile per costruire una teoria?».
Mi ci volle un po’ per capire che queste perplessità, che sembravano segnalare l’esistenza di un solco tra logica e filosofia del linguaggio, erano sintomo di un profondo malinteso che attraversa entrambe le discipline. Lo studio del linguaggio e quello del ragionamento sono basati su ciò che appare plausibile a quanti il linguaggio lo parlano e il ragionamento lo praticano, sulle loro intuizioni appunto; ma si tratta di intuizioni normative («Così si deve fare») e non descrittive («Così accadrà»); ed è una tentazione naturale, quando esse siano state codificate in un sistema coerente e rigoroso, ritenere che sia il sistema a dettare legge. Che la grammatica non sia un preciso resoconto di regole che già applichiamo ma l’origine di quelle regole; che la logica formale non sia un’elegante schematizzazione del nostro senso logico ma legittimi quel senso, addirittura lo costituisca.
In Word by Word, Kory Stamper mostra che lo stesso malinteso, con le stesse inopportune conseguenze, tormenta non solo grammatica e logica ma anche il significato delle parole. Stamper è una lessicografa nella casa editrice Merriam-Webster, che dai primi dell’Ottocento pubblica dizionari di inglese (americano); il suo compito principale è coniare definizioni, anche se talvolta, a sgradevole illustrazione del malinteso di cui sopra, le tocca investire buona parte del proprio tempo rispondendo a lettere di protesta. Come quando la parola «marriage» è stata definita includendovi il possibile uso «gay marriage» e centinaia di persone le hanno scritto insultandola e minacciandola di morte, evidentemente convinte che il dizionario avesse il potere di escludere dalla lingua l’espressione, e magari dal mondo il comportamento, da loro aborriti. Ma il dizionario può solo catalogare parole e significati che i parlanti hanno già fatto propri, non può imporli (o sopprimerli) di sana pianta.
Due ulteriori esempi offerti da Stamper contribuiranno ad articolare il tema da angolature diverse. Il primo concerne la parola «irregardless», bersaglio costante dei puristi che la giudicano un orribile, insensato solecismo. Il suffisso «less», spiegano, è già negativo; quindi la parola «regardless» già vuol dire «senza curarsi di, indipendentemente». L’ulteriore prefisso negativo «ir» è ridondante e confonde solo le idee; al limite, la mostruosità «irregardless», se volesse dire qualcosa, dovrebbe voler dire il contrario di quel che pensano gli sciagurati che la usano. Eppure gli sciagurati ci sono, e scavando nella storia si scopre che ci sono stati almeno dal 1860, e s’impara perfino che c’è metodo in questa apparente follia: che per chi usava «irregardless» un secolo fa (e forse per chi la usa oggi) il prefisso «ir» aveva valore non negativo ma accrescitivo, come a dire «senza curarsi affatto di qualcosa». Una lingua è un fiume maestoso, dice Stamper, fatto di mille rivoli che perseguono ciascuno un proprio corso, e l’autorità con cui certi rivoli vogliono ostacolarne altri non è che arroganza, e quegli altri perseguiranno comunque il loro corso. Irregardless.
Il secondo esempio concerne la parola «nude», riferita a un colore. Che colore è? Un’accurata ricerca degli usi correnti sembrava testimoniare senza ombra di dubbio che si trattasse del colore della pelle di una persona bianca: quando un reggiseno o un paio di calze sono descritti come nude, è quello il colore che s’intende. Così il dizionario si è adeguato e una volta di più sono arrivate clamorose proteste. Perché «nude», ovviamente, vuol dire anche nudo, e quando una persona di pelle scura è nuda il colore che mostra non è quello sancito dal dizionario. Sembrava un impasse insolubile: la lingua sembrava irrimediabilmente razzista e il dizionario non poteva che confermarne il pregiudizio. Finché la Stamper, in giro per compere con la figlia adolescente, non incappò in linee di cosmetici denominate nude ma comprendenti tutto uno spettro di colori dal chiaro allo scuro. Salvezza! La lingua non è irrimediabilmente razzista; se ne può documentare un uso più ampio di quello previsto e il dizionario, senza venir meno al suo compito notarile, può registrarlo. Il che ci consegna un ultimo suggerimento: se volete cambiare le cose, potrebbe essere una buona idea cominciare parlando diversamente.