Nell’antropologia che sta alla base della mia visione politica, l’essere umano non è un io cartesiano, un in-dividuo, fonte originaria e autoctona di pensieri, desideri e valori (da spendere al mercato globale degli in-dividui); è invece un dialogo costante (pur se non sempre benevolo) tra voci distinte, tutte originarie dall’esterno. L’interno non è che un modo di organizzare l’esterno: le tracce che altri hanno lasciato in noi, il dono che altri ci hanno fatto di idee e di sentimenti. L’altro, dunque, ci è indispensabile non in senso pragmatico ma in senso ontologico: ciascuno di noi è l’altro – anzi, gli altri. Un mio articolo uscito oggi sul Sole svolge questo tema da un’angolatura particolare: quella del biografo. Ve lo copio qui sotto.
Richard Holmes dichiara che scrivere di un autore significa aprirsi a ignoti modi dell’essere, che per farlo bisogna usare un’arma valida quanto pericolosa, l’empatia: la capacità «di entrare con l’immaginazione in un altro posto, in un altro tempo, in un’altra vita». Non potrei essere più d’accordo. Ho trascorso anni in compagnia di un nobiluomo cinquecentesco francese (Michel de Montaigne), di un monaco dell’undicesimo secolo (Anselmo d’Aosta), di un rigido accademico prussiano (Immanuel Kant) e di tanti altri individui lontani dalle mie origini e abitudini; li ho avvertiti penetrarmi giorno dopo giorno per osmosi; ho osservato le loro espressioni contaminare le mie, finché quel che ne dicevo non era un distaccato resoconto ma un atto di ventriloquismo, di straniamento, di identificazione alienante. Ci sono lingue che si conoscono ma non si parlano, perché in esse non ci siamo totalmente immersi; scrivere di un autore, scriverne davvero, esige la capacità di parlarlo che solo può dare l’essersene lasciati sommergere, senza riserva e senza scampo.
Holmes è un biografo, con una predilezione per il Romanticismo. Ha scritto di Coleridge e Shelley, e una volta, in un libro molto ammirato e premiato, The Age of Wonder (pubblicato nel 2008), ha scritto una biografia di gruppo: quella di decine di personaggi creativi dell’Ottocento (gli astronomi William e Caroline Herschel, il chimico Humphry Davy, il botanico Joseph Banks, ma anche Wordsworth, Keats e Byron) che cercavano verità e saggezza mescolando scienza e poesia, spassionata ricerca e tensione emotiva. In This Long Pursuit, Holmes riflette sulla sua professione e passione, che lo catturò da ragazzo quando decise di seguire le orme di Robert Louis Stevenson sulle Cevenne e da allora, per mezzo secolo, lo ha tenuto in ostaggio: una passione che qui ha prodotto «una sorta di eulogia: una celebrazione di una forma, un’arte e una vocazione che ho amato intensamente e che ancora non comprendo del tutto».
La celebrazione è opportuna, perché l’arte della biografia naviga su acque infide, pericolose come l’empatia che le dà sostanza. La biografia non è storia, insegna Plutarco che ne fu il primo grande maestro: quel che le interessa non è una successione di eventi ma il loro senso, e per avvicinare il senso di Alessandro Magno la descrizione di battaglie o assedi vittoriosi conta meno delle sue formidabili ubriacature. Il biografo cerca una verità universale, quella che, asserisce Aristotele, compete alla filosofia e alla poesia (oggi diremmo anche: alla narrativa) e non alla storia; ma la verità che gli appare e su cui scommette è vincolata a dei fatti. Nessuno domani potrà scoprire che Amleto non somigliava a quel che racconta Shakespeare, perché Amleto è una creatura fittizia; ma una lettera appena scoperta in un archivio, una nuova opera mai prima considerata possono sconvolgere il senso che abbiamo dato alla vita di Carlyle o di Poe (o di Nietzsche, o di Heidegger). Holmes, consapevole di questo rischio, insiste sulla creatività e non definitività dell’operazione biografica, su quanto ogni biografia rifletta il suo contesto, su come si possa fare giustizia a un mestiere così incerto e ingrato solo istituendo una disciplina di «biografia comparata», che segua le fortune degli autori da un’epoca, da una riserva di dati e da una moda culturale all’altra, valutando il biografo per quanto bene sa suonare gli strumenti del suo tempo.
Non è un caso che questa celebrazione si chiuda con un biografo (anzi, una coppia di biografi) che assurge al rango di eroe prometeico. William Blake morì a Londra nel 1827, in totale oscurità. I pochi che ne parlarono nei successivi trent’anni lo giudicarono un pazzo; una raccolta di 58 fogli di suoi disegni e poesie fu venduta nel 1847 per dieci scellini e sei pence. Negli anni 1850 un giovane critico di nome Alexander Gilchrist decise di riabilitarlo scrivendone una minuziosa biografia. Gilchrist era un ricercatore assiduo: setacciò gli antichi conoscenti di Blake, rinvenì sue opere e lettere, e ne scrisse con trasporto. Quando aveva già cominciato a trasmettere i primi capitoli all’editore (Macmillan), la figlia malata di scarlattina lo infettò e di lì a poco lui morì. La moglie Anne, allora, rifiutandosi di veder perso il lavoro del marito, lo prese in mano e, senza mai ammettere di essere null’altro che un curatore di quel lavoro, lo portò a termine. La biografia, pubblicata nel 1863, fu uno straordinario successo e da allora la genialità di Blake è stata un fatto acquisito. Siccome il manoscritto di Gilchrist non esiste più, non sapremo mai fino a che punto quel che leggiamo sia dovuto ad Alexander o ad Anne. Ma è giusto così: l’empatia e l’immersione totale che conducono un biografo nei più profondi recessi di una vita hanno anche un altro nome, amore; quindi è giusto che, in un caso in cui una biografia ha fatto un’enorme differenza per la storia, il suo stesso venire al mondo sia stato frutto di un atto d’amore.
Cinzio Lombardi says
July 27, 2017 at 9:35 amOltre la solidarietà
Da molti anni seguo le peripezie filosofiche dell’amico Ermanno Bencivenga. Nel 1999, dopo aver letto Oltre la tollerana e Manifesto per un mondo senza lavoro, ho fondato un’associazione culturale denominata Me-te Nuove soggettività che ottenne un certo successo di pubblico in virtù delle iniziative sostenute da me e dai soci dell’associazione stessa. Poi Bologna passò alla destra e il sindaco “macellaio” tagliò ogni finanziamento possibile alla associazioni in odore di sinistra causando la lenta morte dell’associazione. Nonostante questa sconfitta ho continuato in varie occasioni pubbliche a sostenere molte delle idee di Ermanno (che ho fatto mie secondo la mia personale interpretazione). Dopo aver studiato Hannah Arendt, la filosofa della pluralità, ho cercato di integrare le idee di Ermanno con le sue. Ecco il risultato di un articolo che ho pubblicato un paio di annni fa presso i Quaderni letterari dello Specchio di Alice di Bologna.
OLTRE LA SOLIDARIETA’
Scrive il sociologo Costanzo Ranci: “Secondo il filosofo sociale Adam B. Seligman, la solidarietà (…) si riduce a un senso generalizzato di tolleranza che ci richiede di lasciare il posto a sedere sull’autobus all’anziano invalido, ma allo stesso tempo ci autorizza a non scambiare alcun altro tipo di comunicazione con la stessa persona. Una volta rispettati i diritti e la dignità fondamentali della persona, non abbiamo altre responsabilità nei confronti dei soggetti deboli (…): di essi si occuperanno i servizi di welfare (…) e eventualmente i volontari.” Il volontariato comincia perciò “dove finisce la solidarietà fondata sul senso di tolleranza” (Costanzo Ranci, Il volontariato).
Il filosofo e il sociologo citati hanno perfettamente ragione. Senonché i due studiosi non ci dicono da dove derivi la solidarietà fondata sulla tolleranza. Per scoprirlo dobbiamo rivolgerci al filosofo Ermanno Bencivenga che, in Oltre la tolleranza, analizza la concezione comune e più diffusa della soggettività e del modo attraverso cui si pone in relazione col mondo. La concezione comune si basa sul modello dell’identità costituita da un io sostanzialmente autoreferenziale e logicamente indipendente, derivante dall’antropologia cartesiana. Essendo indipendente e privo di legami strutturali col mondo esterno, questo modello è causa di un infantilismo politico che ci porta, al massimo, a “tollerare” l’altro. In questo modo tutta la diversità che ci circonda rimane nella sua alterità senza nessun collegamento col soggetto che, al massimo, può esprimere il senso di solidarietà attraverso un atto volontario. Ma come ben sapevano San Paolo e Sant’Agostino, la volontà è fragile, inaffidabile, soprattutto soggettiva. Un essere umano privo di struttura che fonda la sua scelte solo sulla volontà individuale è debole, vuoto.
Invece la persona è plurale, molteplice, piena di diversità e porta in sé le tracce dell’altro. Le molte voci che lo compongono vanno messe in dialogo per poi scegliere quella alla quale aderire. Quello che succede di solito, però, è che le persone si limitano ad ascoltare una sola voce, quella del pensiero corrente e unico che conferma la teoria tradizionale che intendo avversare. La persona che in questo modo si rende in-dividuo, vuoto e indivisibile, non pensa realmente (come ben sapeva Hannah Arendt che spiega in questo modo il fenomeno dell’adesione in massa al nazismo in La banalità del male e nel capitolo Pensiero, inserito in La vita della mente). Perché per pensare è necessario inserire il tu, l’altro con cui confrontarsi. Quindi il pensiero o è plurale o non è pensiero. Solo quando il pensiero è plurale l’essere umano è in grado di usare un’altra importante facoltà: quella del giudizio che ci mette in grado di scegliere rendendoci responsabili delle nostre scelte. Il giudizio ci permette di deliberare ciò che il pensiero, che nasce dal dialogo interiore, ha appunto elaborato grazie all’altro esteriore, al mondo esterno interiorizzato e perennemente in fieri.
Solidarietà significa dunque, come scriveva ad esempio Léon Bourgeois (La solidarité, 1896), che “tra ogni individuo e tutti gli altri esiste un legame necessario di solidarietà”, laddove il termine “necessario” significa essere vincolati a una pluralità che può essere se stessa solo se, nel contempo, è anche per gli altri. Quest’ultima definizione della solidarietà si incontra per la prima volta nel 1844 nel Discours sur l’esprit positif del padre della sociologia, Auguste Comte, che usa il concetto nel senso di vincolo sociale senza altre specificazioni, come sinonimo cioè di legame, coesione o integrazione sociale. Ma ancora una volta queste affermazioni di principio non bastano. E’ la facoltà di pensare unita a quella di giudicare a rappresentare il legame che ci permette di allontanarci dal ritorno alla naturalità dei nostri comportamenti o di affidarci alla labilità della nostra volontà. Si tratta di attivare razionalità e moralità, cioè la consapevole e ragionata libertà di effettuare scelte solidali da parte di personalità complesse, multiple – e non semplicemente individuali. Si tratta di andare oltre, insomma, la tolleranza e oltre quella solidarietà volontaristica che su essa si basa e che, de facto, allontana l’assunzione di responsabilità che, sola, favorisce il legame sociale.
Solidarietà cambia di-segno
Solidarietà
cambia di-segno
esci dal regno
della tua cecità:
rifletti, fanne conto
sbianca la verità
che pensa tu sia pronto
agli altri aiutare
pel sol gusto del dare.
Solidarietà
cambia di-segno
esci dal regno
della tua cecità:
se vuoi parlar con l’altro
non c’è calamità
peggior dell’esser scaltro.
L’altro è in te, ricorda
(che coscienza non rimorda).
Solidarietà
cambia di-segno
esci dal regno
della finta cecità:
scansa tua la volontà
che facoltà è labile
tam quam inaffidabile.
Sai, in tutta serietà,
sei tu già comunità!
Cinzio Lombardi