Chi mi conosce sa che, oltre che di filosofia, ho molto parlato anche di gioco, e che ho caratterizzato la filosofia come una forma di gioco intellettuale. Una recente intervista che ho dato alla rivista Amica Sofia tratta di questo tema e ho pensato di mostrarvela.
Nel libro Giocare per forza Lei definisce il “non gioco”. Si può parlare anche di un’infanzia “per forza”?
Il “gioco per forza” è una costruzione sociale. Si offrono esperienze, attività che vengono descritte, definite come ludiche ma in realtà non lo sono: sono l’esatto contrario del gioco. Allo stesso modo esiste un’immagine sociale dell’infanzia, del bambino, che non corrisponde o addirittura corrisponde al contrario di quel che è l’infanzia: un momento della vita difficile in cui si devono spesso gestire turbamenti emotivi, in cui bisogna adattarsi, con difficoltà, a un ambiente umano, naturale, sociale che non si conosce; l’infanzia è fatta anche di incubi e di paure. Ma, appunto, l’immagine sociale del bambino, quella soprattutto che aspira a vendere al bambino certi prodotti di mercato, ce lo dipinge come beato e un po’ beota, ispirato da una perpetua contentezza. È una colpa, perchè non si riconoscono le difficoltà del caso, non si riconosce neanche la difficoltà che il bambino che gioca deve costantemente affrontare per realizzare il suo gioco.
In Filosofia in gioco Lei, a proposito del gioco solitario, dice che nel gioco “incorporiamo gli altri”. Questo termine mi ha colpito: “incorporiamo”. Quale può essere il ruolo del corpo in quel gioco particolare che è la filosofia?
In quello stesso libro dico che per me l’anima e il corpo non sono quel che erano per Cartesio: due entità separate che si trovano per caso e per un certo periodo a convivere. L’anima è un certo modo di vivere il corpo: quando il corpo si adagia in rituali stereotipi diventa sempre più piegato al suo ruolo di corpo; quando il corpo si anima, quando rivela la sua ludicità e creatività, diventa anima e le sue attività diventano spirituali. Questo ci dovrebbe portare a un maggiore rispetto per il corpo, un rispetto ben presente nella grande tradizione filosofica italiana che noi abbiamo dimenticato: autori come Bruno e Campanella parlavano con grande consapevolezza, con grande intelligenza del corpo. Campanella, per esempio, contrastando la tradizione aristotelica, ritiene che non la vista ma il gusto sia il nostro senso più veridico e parla di un’anima corporea alla quale in parte mi sono ispirato per quel che dicevo prima. Mi è capitato spesso di pensare, l’ho anche scritto in un libro recente, a che cosa sarebbe successo nella storia del pensiero occidentale se si fosse presa la strada di Campanella invece che di Cartesio. Campanella muore nel 1639 a Parigi dopo aver passato ventisette anni in carcere, riverito e onorato da Luigi XIII e dal cardinale Richelieu, avendo presagito la nascita del futuro Re Sole. Il Discorso sul metodo e le Meditazioni di Cartesio, dove viene sancita la radicale distinzione fra anima e corpo, vengono pubblicati rispettivamente nel 1637 e nel 1641, quindi esattamente due anni prima e due anni dopo la morte di Campanella. La civiltà occidentale, il pensiero occidentale, la filosofia occidentale hanno preso la strada di Cartesio e soltanto nel XX secolo alcuni fenomenologi, alcune femministe, alcuni critici letterari hanno cercato di riportare il corpo dentro la filosofia; ma il corpo nella filosofia c’era già, ed era parte della tradizione filosofica italiana.
In Prendiamola con filosofia c’è una scala in copertina ma la conclusione del libro non mi è sembrata wittgensteiniana nel senso del “gettare la scala”; anzi proprio misurandosi con l’attualità Lei dice che occorre continuare a utilizzare gli strumenti della filosofia per capire la realtà. Allora perchè una scala?
Rimanendo inteso che le copertine le fanno i grafici, io quella copertina l’ho approvata e mi è piaciuta molto. Qui ci sono due discorsi da fare. Il primo è che la scala in copertina suggerisce una situazione di lavori in corso, quindi non suggerisce la fine del lavoro quando si è già arrivati in cima e si devono buttare via gli attrezzi per contemplare il risultato…
Ho visto che è sporca di vernice.
Esatto, è sporca di vernice perchè appunto suggerisce l’idea di lavori in corso e la filosofia è questo: perpetui lavori in corso, lavori che non si completano mai, quindi mi sembra giusto giocare con la famosa metafora wittgensteiniana per darle un senso magari un po’ rinnovato. La seconda cosa da dire è che Wittgenstein per nostra grande fortuna non ha fatto quel che consigliava di fare nel finale del Tractatus, ha continuato invece a fare filosofia per tutta la vita e in un testo pubblicato postumo, Della certezza, dice: “Credo che possa interessare a un filosofo, a uno che pensi con la sua testa, leggere le mie note. Perché, anche se solo raramente ho colpito il bersaglio, riconoscerebbe a quali obiettivi stavo ininterrottamente tendendo”. Quindi una cosa è quel che dice Wittgenstein alla fine del Tractatus, un’altra cosa completamente diversa, per fortuna, è quel che Wittgenstein ha continuato a fare fino alla morte.
Ci sono molti modi di praticare la filosofia con i bambini, da metodi più strutturati a proposte che partono dai testi filosofici semplificati, ad altre proposte che muovono dalle favole o da stimoli artistici. Siccome Lei ha scritto da trentadue a sessantadue favole filosofiche, volevo chiederle se esiste una differenza tra la favola filosofica e il testo filosofico.
Comincio annunciando che è in uscita La filosofia un ottantadue favole! Comunque il vero problema qui è di priorità, perchè dentro i testi filosofici le favole ci sono ma vengono solitamente dimenticate. Quella della caverna platonica è una favola; quella raccontata da Locke dell’indiano secondo il quale la Terra stava su un elefante che stava su una tartaruga eccetera è una favola; quella kantiana della colomba che si leva in volo e pensa che volerebbe anche meglio se non incontrasse la resistenza dell’aria è una favola. Ma i sussiegosi commentatori di questi autori, che spesso li riducono in briciole, evitano le favole per rivolgersi a quelli che considerano i loro argomenti più prettamente filosofici. E invece la favola di Kant esprime con mirabile concisione buona parte del suo pensiero e sarebbe la prima cosa da raccontare a chi voglia capirlo. Quindi non credo che ci sia bisogno di semplificare i testi filosofici, basterebbe leggerli, cosa che spesso si tralascia: anche gli stessi studiosi di un autore magari lo hanno letto da studenti e poi per il resto della loro carriera continuano a scriverci libri sopra leggendo la letteratura secondaria. Se ritorniamo con mente fresca, con occhi freschi a leggere i testi, ci troviamo un sacco di favole, cioè di inviti alla creatività, all’immaginazione, anche all’irriverenza. Una cosa inoltre che vorrei sottolineare del titolo La filosofia in trentadue, o quante che siano, favole è che può essere oggetto di un fraintendimento. Girando in rete, trovo persone che dicono “Ma qual è la filosofia di questa particolare favola?”, e questo vuol dire che non hanno capito niente. Perché “la filosofia in favole” vuol dire semplicemente scatenare la creatività, l’immaginazione, la domanda del bambino. Non vuol dire che viene dato un modo attraente di presentare Kant, Hegel o Platone. Perchè è quella la vera filosofia per bambini, che si può fare anche con le favole di Perrault; non c’è bisogno di parlare necessariamente di Platone o di Kant. L’importante è far nascere dentro il bambino quel che lui ha già, lei ha già di suo, che ha una naturale tendenza ad avere, cioè la domanda. E la domanda scatenata da una favola di Perrault o di Esopo o di Bencivenga o da un testo di Kant è sempre e comunque quel che costituisce la filosofia.
Alcuni dicono che la filosofia con i bambini dovrebbe essere una pratica eminentemente filosofica, altri dicono che è anche una pratica educativa. Qual è la sua opinione?
Educare e filosofare sono la stessa cosa; siamo di fronte a una pura e semplice ambiguità. Come dicevo, dentro al bambino, dentro al giovane la tendenza alla problematizzazione c’è e si esprime in modo naturale: si tratta di e-ducerla, cioè di tirarla fuori e un buon insegnante sa farlo, sa scatenare l’immaginazione, la curiosità, la creatività dei ragazzi. Quando si fa questo si sta facendo filosofia. Poi l’argomento ufficiale può essere fisica, geografia o geometria, ma si sta facendo filosofia perchè la filosofia, come ho cercato di spiegare più volte, non è una materia che una volta occupava tutto lo spazio intellettuale e poi pian piano si è ristretta praticamente a parlare di sé stessa in modo autoreferenziale, come in Heidegger per esempio. La filosofia è l’interrogazione perenne da cui nascono le teorie di ogni genere, artistiche, scientifiche e così via. Quando una particolare teoria che nasce da un humus filosofico si cristallizza, diventa una teoria o una scienza speciale; intanto la filosofia continua nella sua interrogazione da cui nasceranno nuove teorie e nuove scienze. Facendo questo lavoro con i bambini, dunque, li si sta educando nel modo più proprio e più profondo.
La filosofia può dare istruzioni all’uso della realtà, o è meglio che non ne dia?
La filosofia ha un uso nel cambiare la realtà ma è un uso globale, non individuale. È come il gioco: se io gioco e mi arrampico sugli alberi e salto le siepi eccetera, questo mi serve a diventare più agile e potente; ma se giocassi con lo scopo di diventare più agile e potente non starei giocando, starei violando lo spirito del gioco. Quindi, se un bambino o un adulto gioca per buona parte del suo tempo, questa attività globalmente intesa gli permetterà di conseguire scopi globalmente intesi: è in questo senso che la filosofia serve al mondo perchè pensare, pensare in generale, pensare approfonditamente, pensare per molto tempo, per molto del tempo che abbiamo a disposizione, ci consente poi, quando eventualmente salta fuori qualcosa a cui il nostro pensiero si può applicare, di avere in mano lo strumento da utilizzare. Se però pensassimo sempre con l’idea di preparare uno strumento staremmo violando il pensiero e non funzioneremmo neanche tanto bene, come succede a quelle aziende che devono sempre mostrare un utile a sei mesi e alla fine falliscono. Invece, come diceva Pietro Barilla, “il manager ragiona da qui a un anno, l’imprenditore ragiona da qui a vent’anni”. È questo che dobbiamo fare, è questa la vera istruzione per l’uso.