Cinzio ha opportunamente citato nel suo intervento Hannah Arendt, un autore che entrambi ammiriamo molto e che, per quel che può valere, io ho pubblicamente definito il più grande filosofo del Novecento. Cinzio ne ha parlato relativamente a quel capolavoro che è La banalità del male, testo ampiamente frainteso e avversato che rappresenta per me una straordinaria formulazione di etica kantiana: il male esiste, certo che esiste, per Kant addirittura la natura è sede del male radicale; ma non ha dignità logica, non esiste un progetto del male come ne esiste uno del bene; il male non è altro che dimenticanza del bene; quando accade il male, non ci sono colpe da punire ma solo guasti da riparare.
Qui vorrei ricordare un’altra tesi straordinaria di Arendt, un altro suo straordinario invito, stavolta tutto suo perché Kant non c’entra, e non c’entra, che io sappia, nessun altro. Per oltre due millenni la filosofia è stata definita in base alla morte: contemplazione della morte, consolazione dalla morte, vita per la morte. C’è voluta Hannah Arendt, non a caso una donna, per chiederci di aprire la strada a una filosofia della nascita.
In fondo si tratta di punti di vista, perché ogni morte di qualcosa è la nascita di qualcos’altro (o della stessa cosa?); ma ogni rivoluzione è un cambiamento di punto di vista – ogni rivoluzione è concettuale e copernicana. Proviamo allora a pensare insieme, in questo tempo dominato dalla morte, un pensiero che parli di nutrimento, di crescita, di fioritura.