Cari amici:
Spero che le vacanze siano andate bene a tutti. Non ho più aggiunto nulla di nuovo perché so che in Italia, in agosto, sono tutti al mare. Settembre, invece, è tempo di festival e io ne farò qualcuno, incluso il festival Letteraltura [sic] di Verbania, dove sarò venerdì 15. Sperando di farvi cosa gradita, vi copio qui il mio intervento. Il festival è dedicato al tema del viaggio e il mio intervento s’intitola, appunto, Il viaggio.
Il viaggio non ha meta. Chi ha una meta è già al di là del tempo del viaggio, cioè del tempo; il tempo, il suo tempo, non gli appartiene; il suo fine gli è esterno; il suo essere è altrove, in un futuro in cui ha esiliato la possibilità, negandola al suo presente, negando di esserle presente. Leggerà una rivista, farà una o mille telefonate, parlerà con il vicino del tempo, di quel tempo di cui non ci si può fidare, cercherà di dormire; nulla saprà e per nulla si curerà del paesaggio; sarà tutto in ciò che lo aspetta, e che sempre lo aspetterà perché la sua vita è un’attesa; e un giorno finirà e quel che attendeva non sarà mai accaduto. Non saprà neppure che cosa attendeva. Non erano le vacanze, non era la pensione, non era l’orgasmo, non era la pace. La sua porta, quella che era stata aperta per lui, si chiuderà senza una parola, senza una spiegazione. Si sentirà defraudato; gli sembrerà di non essere mai davvero andato in nessun posto. Era già arrivato, da sempre; quindi non è mai arrivato. Non ha mai smesso di seguire le istruzioni contenute nel manuale; non ha mai perso di vista i suoi interessi, quelli che qualcuno lo ha convinto erano i suoi interessi, da difendere con le unghie e con i denti («erano» al passato – la sua esistenza è sempre già passata; il suo stesso futuro è passato); ha tenuto i piedi saldamente piantati a terra, anche nella carrozza di un treno, anche nella cabina di un aereo; quindi ha portato la terra con sé, ovunque – non si è mai mosso.
Il viaggio si svolge di notte. Può pure essere il solstizio, quel giorno di mezza estate in cui il sole, a certe latitudini, non scende mai sotto l’orizzonte e le fanciulle sorridono invitanti e lascive, e il diavolo è in agguato. Non importa. Se non fosse notte, non sarebbe un viaggio. Se i contorni fossero nitidi, immediatamente riconoscibili, se non avessimo dubbi su ciò che disegnano, non avremmo mai lasciato casa: saremmo ancora sull’aia con le galline, nell’ampia cucina con il forno a legna, intenti a preparare la cena; ci rispecchieremmo in volti familiari – volti che non vediamo più, che non abbiamo mai visto perché erano troppo familiari. È un viaggio perché dobbiamo strizzare gli occhi e far fatica per tenerci svegli; perché siamo circondati da sagome incerte, fluttuanti e minacciose; perché non cogliamo il contesto, l’orizzonte che dà un senso a ogni figura, entro il quale ogni figura ha un suo posto naturale (vi cade, invece di volare); perché talvolta, in preda alla disperazione, dovremo appoggiarci a chi è capace di vedere al buio, al nostro buio, a chi ha fatto di quel buio la sua casa. Di chi non è abbacinato dal riflesso della luce sulla sabbia, o sul ghiacciaio; di chi la luce non acceca. Di chi non viaggia, insomma; perché viaggiare è accettare la cecità. Ed è, per una volta, vedere. Cioè prevedere, intuire, azzardare una forma nella nebbia, un’immagine, immaginarla, darle noi quella forma che senza di noi non avrebbe.
Il viaggio avviene in fretta. Che non è velocità: matematico rapporto di spazio e tempo, grafo inerte nella sua astratta eleganza, stelle e pianeti in moto perenne nella calma siderale, nel silenzio di chi ha tutto il tempo per riflettere, per deliberare – tutto il tempo che ci vuole: che vuole noi, che ci reclama, e che quando finalmente abbiamo è finito, ha finito di reclamarci. È invece concitazione, affanno; rimpianto di non aver prestato attenzione, di aver girato la testa quando non dovevamo. Consapevolezza di occasioni mancate; baleni anamorfici fissati nella mente in tutta la loro ambiguità, la loro infinita, incomprensibile ricchezza. Tinte prima assenti da ogni spettro, infrasuoni prima inaudibili che non riusciamo a collocare, che ci sforziamo di rammentare, di ricordare, di (ri)afferrare con il pensiero e con il sentimento, mentre già altre tinte e altri suoni incombono: sovraccaricano, sovrastano, precipitano.
Si viaggia su un mezzo meccanico (non dentro di esso; più in alto, librandosi nell’aria). Anche a piedi, anche arrampicandosi a fatica per una strada sassosa, con i muscoli che urlano tutto il loro sdegno facendo presa sul terreno, si viaggia solo se non ci si fa caso, se si dimentica di avere un corpo. È sempre e solo un’anima che viaggia, nella notte della sua ignoranza, nella fretta del suo desiderio, immersa in ciò che è altro da sé e per questo anima. Si smette di viaggiare quando una promessa di ristoro ci attira in una taverna, quando in un sottopasso svuotiamo la vescica; quando cioè il ristoro ci si propone come un luogo definito da raggiungere – come una meta – o ci rendiamo conto di avere una vescica tesa e dolorante. Quando sentiamo il dolore e la fame, quel che una macchina non sente: la macchina perfettamente oliata e funzionale che il nostro corpo diventa quando il viaggio è tutto quel che siamo, quando per noi non c’è altro che viaggio. Allora non siamo che ruote, ferrate o di gomma pesante, vulcanizzata, costruite nell’incandescente officina di Vulcano; allora siamo tutt’uno con la strada, con il tergicristallo che ronza per darci un attimo di chiarezza, con i fari che rincorrono l’oscurità, la spostano un po’ più in là, mentre un’altra oscurità si chiude dietro di noi.
Si viaggia da soli. Anche se un altro corpo è accanto al nostro, anche se si condividono sudore e lacrime, liquami e umori, anche se non si smette mai di tessere insieme un velo inestricabile di parole, di ragionamenti, di storie. Si viaggia solo se si è abbracciata l’autonomia, l’essere legge a sé stessi, origine spontanea del proprio essere; solo se si rinuncia al bisogno, al legame, al fondamento come alla propria forma di vita. Cioè alla propria forma di morte. A viaggiare è sempre uno, singolo; più viaggiatori non costituiscono una comunità. Non se una comunità è un’istituzione, una struttura disponibile a un comportamento inerziale, a fornire ricette precise per ogni comportamento; a essere costituita, appunto. Non se incontrarsi vuol dire aggrapparsi, esorcizzare la solitudine.
Si viaggia fra gli spettri. Il tepore che conforta un villaggio ci è estraneo; invisibili le tracce depositate, i sentieri incisi fra i boschi dalle cure quotidiane di generazioni legate a un campo, a dei percorsi, a delle abitudini. I segni della loro presenza, anzi, ci irritano: un ramo spezzato, erba calpestata, un mozzicone di sigaretta. Non vogliamo che nulla ci ricordi la casa che abbiamo lasciato, ci distragga da quanto di inconsueto, assurdo e orribile ci affascina e ci suggestiona. Non vogliamo vicinanza; viaggiamo non per andare lontano ma per essere lontani, per vedere ogni cosa da lontano. E da lontano non si vedono che spettri. Da lontano gli oggetti diventano idee, concetti; si emancipano dall’inessenziale, acquistano un’essenza. Un cervo è il cervo, anzi è cervo senza articolo: senza l’articolazione che fa di ciascuno di noi quell’unico individuo, il riferimento di un pronome dimostrativo, una haecceitas che nessuna definizione, nessun discorso può esaurire. Cervo si staglia su uno sfondo ottuso, privo di ogni specificità, come un diagramma in un trattato di zoologia, uno stemma in un repertorio di araldica: un emblema di normalità, di una norma che non è statistica ma prescrittiva, che non racconta ma insegna – insegna a ogni cervo come essere cervo. Sapendo che ogni cervo le verrà meno, la tradirà, cederà alle lusinghe di altri insegnamenti.
Quel poco che i nostri occhi deboli e cisposi riescono a distinguere è il senso stesso del mondo; e se abbiamo dovuto venire fin qui per coglierlo è perché solo qui si sono abbastanza indeboliti da rimanere ciechi a tutto il resto: al senso di ogni cosa, che impedisce di cogliere il senso del mondo. Qui, in perfetta lucidità, ci elude la trepida insistenza con cui ogni cosa propone ciò che le è particolare, esemplare, irripetibile; qui il paesaggio è un profilo di geometrica purezza, le montagne si stagliano imperiose, i fiumi scorrono compatti, le nuvole sono sospese in un cielo senza vento. Forse un giorno potremo tornare a casa ed esserne altrettanto lontani, apprezzarne la sublime razionalità, rimanervi come anime. Vivere anche lì fra gli spettri. Allora il viaggio avrà trionfato; allora neanche Itaca sarà più una meta. Penelope sarà la moglie fedele, Telemaco il figlio premuroso, Laerte il padre colmo di dignità; avranno indossato per noi la maschera di attore. Faranno la loro parte nel dramma che ha assorbito l’esistenza; l’ha trasformata da un compito in un’avventura. E gli avventurieri non possono avere esitazioni o scrupoli, lasciarsi distrarre dai dettagli; la loro parte non lo consente.
Si viaggia fra le rovine. Il tessuto connettivo che è la sostanza di un edificio, di uno strumento, di un organismo, il loro vigore e la loro salute, si disfa davanti al nostro sguardo miope. Dappertutto si creano interruzioni, si spalancano cavità: un viso si trasforma in un teschio, un muro diventa fatiscente. Perché per vincere la nostra ignoranza dobbiamo imparare a ignorare: sfuggire l’ignoranza ignota a sé stessa, compiaciuta e saccente, come si dismette un abito consunto, e confrontarci con la nostra vista velata, con le carenze e i buchi che ci offre. Potremo sapere qualcosa solo non sapendo, solo accogliendo la provvisorietà e la frustrazione senza le quali non si è in grado di imparare alcunché; potremo capire il mondo solo quando sarà esplosa la sua superficiale coerenza, sarà venuta meno l’elaborazione secondaria che finora ci ha illuso, ci ha fatto abitare un sogno, ci ha nascosto che fosse un sogno – quando la terra, finalmente, comincerà (non c’è altra fine che un inizio) a mancarci sotto i piedi e avvertiremo il suo movimento. Quando capiremo che anche la terra non è altro che un sasso pieno di buchi; non è, anch’essa, altro che una rovina.
Si viaggia, però, con gioia. Che non è oblio o negazione dello strazio, di quella divisione interna, quel frammentarsi che è il dolore in quanto tale. È risolutezza nell’approvare lo strazio e identificarvisi; maturo riconoscimento della sua necessità, del suo definire l’umano, cioè l’essere perché tutto l’essere è umano, razionale, perché è così che dobbiamo giudicarlo, perché questo è il dovere che l’essere ha nei confronti di sé stesso, che noi abbiamo in quanto siamo, perché l’autentico ottimismo, che non si esprime in parole o proponimenti ma in azioni, non è opzionale, perché l’unica scelta che ci è data è se viverlo con fierezza o con rimpianto. Se farlo nostro, farlo noi, fare della sua praxis infinita e dell’infinito piacere che le si accompagna (infiniti perché fini a sé stessi, perché costantemente ricominciano) la nostra ragione, se essere la ragione inesausta ed esigente; oppure rimanere sulla soglia, davanti a quella porta che un giorno si chiuderà senza un commento, senza una risposta.
Il viaggio è lotta. Spesso lo è nel modo più ovvio: saremo assaliti da predoni, da pirati; vorranno la nostra borsa e le nostre donne; chiederanno un riscatto. Saremo offesi, malmenati, incatenati in un antro; ci verrà tagliato un orecchio come garanzia della nostra identità. Ci salvaguarderemo da questi imprevisti; proteggeremo i convogli con scorte armate; eviteremo di uscire allo scoperto, di praticare lo scoprirsi senza il quale non è dato scoprire. Eviteremo di viaggiare, anche se il nostro corpo si sposterà di latitudine e di zona climatica. Ma, quando il viaggio è in corso, avviene anche la lotta sotterranea che sostiene quell’altra sua variante più ovvia, la lotta trascendentale di cui quella empirica non è che una comoda, vivida rappresentazione. Se non fosse che la comodità uccide l’intelligenza, la vividezza induce assuefazione, addormenta i sensi. Per farsi ascoltare bisogna parlare sottovoce.
La vera lotta è un conflitto non di corpi ma di interpretazioni. La posta in palio è non quanto spazio occuperemo al mondo ma che cosa sarà il mondo; non se saremo vittoriosi o dominatori ma chi saremo; non se l’altro piegherà la schiena davanti a noi ma se piegherà la sua espressione e la sua invenzione, i suoi affetti e i suoi ideali ai nostri schemi. Chi non viaggia non affronta questa lotta, non ne soffre il tumulto dentro di sé; per lui (è sempre un lui ad agire così; c’è sempre l’idiozia della mascolinità in gioco) contano gli eserciti in armi, i missili, le portaerei. Gli scontri di civiltà avvengono sul campo di battaglia, o in un braccio di mare; e sono decisivi e catartici. Alla fine c’è una resa incondizionata: assoluta, sciolta cioè da ogni obbligo o legame, da ogni decenza. E si svolge una cerimonia trionfale, una parata; il nemico viene esposto al pubblico ludibrio e dileggio; i suoi beni sono in mano nostra, simbolo evidente della sovranità che abbiamo sul suo destino. Si scrive la parola «fine»; scorrono i titoli di coda. Chi viaggia sa che l’intera messa in scena è ridicola: che i vincitori non hanno nemmeno combattuto la vera guerra, non hanno nemmeno capito che stava accadendo; e quindi, inevitabilmente, l’hanno persa. Gli infedeli di qua hanno combattuto con gli infedeli di là nelle acque gloriose di Lepanto e li hanno sgominati, annientati, cosicché la logica di una stolta teocrazia possa estendersi anche a loro: trent’anni dopo, Giordano Bruno morirà sul rogo, colpevole di aver viaggiato troppo, per l’Europa ma soprattutto nel pensiero. Cadono le torri in una luminosa mattina di fine estate e la più grande potenza militare che il mondo abbia mai conosciuto scarica la sua rabbia feroce su pastori e briganti; e il fondamentalismo come paradigma, come Weltanschauung, si afferma incontrastato nella generale conversazione. Ogni aspetto della vita associata ha ora i propri sacri testi, le proprie scritture; l’originalismo travalica le corti e i tribunali; il significato dei Padri fondatori è tanto disponibile a ognuno, tanto accessibile a patetiche, ipocrite razionalizzazioni, quanto il volere di Dio. Come il volere di Dio. Dio ha vinto anche se ha perso, ha vinto perché ha perso.
Il viaggio parte forse con libro e versetto ma li smarrisce presto, girato il primo angolo, valicata la prima collina. Chi viaggia è straniero, immerso in un linguaggio alieno, non più soggetto alle facili rassicurazioni che lo crocifiggono a una miserabile analiticità. Con la pizza cuoce al forno anche l’ananasso; la pasta è condita con il pollo. Chi viaggia capisce presto che tutto è in discussione: non solo le mosse da fare, ma le regole stesse del gioco. Il sole non sorge sempre a oriente; lo zodiaco non ha sotto ogni cielo dodici case. Chi viaggia non ha più Dio; viaggia, è capace di viaggiare, perché l’ha perso o non l’ha mai avuto. Chi viaggia è colpevole: per vedere si acceca; per conseguire l’essenza del mondo lo distrugge; per toccarlo se ne allontana, inesorabilmente. Del mondo è responsabile; ne porta il peso sulle spalle come Atlante. Ha perso l’innocenza; quando gli hanno offerto un sonno beato ha preferito mangiare il pomo, salvo poi accusarne la donna perché il maschio è sempre idiota, perché umana fino in fondo, in viaggio da mane a sera, è sempre e soltanto la donna. La donna che dalla famiglia è sempre la più lontana, che ne è l’anima, che ne è sempre oltre, la sta sempre cercando, desiderando. La sta sempre imparando e (non) sapendo.
Separato dal suo contesto, scacciato dall’Eden, incapace di relare a quei dettagli che di ogni cosa danno sicuri il senso, chi viaggia percepisce infine qualche dettaglio. Illumina la logica del dettaglio, che deve venire isolato, quindi esclude che possano esserci tutti i dettagli, ci costringe ad ammettere che tutti i dettagli non sono nessun dettaglio. Percepisce che una vela è un insieme di stracci, come quelli stesi ad asciugare in terrazza fra cui si nasconde la banda dei soliti ignoti («Si lavicchia, Signor Commissario», spiega Totò prima di farsi la valigia per partire – l’attore, la maschera che nel suo sguardo stralunato riflette la nostra stramberia per noi altrimenti invisibile, il visitatore alieno, il viaggiatore ineffabile di cui non si può pensare il migliore); che gli stracci anticipano l’esito della battaglia, la riduzione del mondo, delle civiltà che si scontrano, dell’intera comunità di esseri razionali, a un mucchio di stracci. Per chi viaggia gli stracci si affermano con la loro natura fibrosa, la canapa impone la sua grana grossa e ruvida, ci sono timbri pesanti d’inchiostro a ricordarci provenienze e incarichi. C’è una materia che si fa largo, che non si lascia annullare, proprio mentre l’anima la dichiara un non essere. Solo l’indifferenza annulla; solo uno sguardo che ti passa attraverso, che non rispetta la tua integrità, il tuo messaggio, neanche per una frazione di secondo, sa negarti nel modo più definitivo, quello che fa più male – perché (ti) mette fine. La materia esiste solo per l’anima, solo nella lotta con l’anima. Solo nel viaggio, quando il corpo tace e nel suo silenzio parla la fisicità di tutto ciò che finora era disatteso. I frammenti, i rimasugli, gli stracci su cui il corpo trascorre senza un sussulto. Le rovine.
Si viaggia anche (solo?) nel tempo. Anche (solo?) nel tempo si riesce ad allontanarsi, a prendere le distanze da tutto ciò che, oscenamente, è. Quindi si guadagna il proprio tempo solo giocando con il tempo, rovistandoci dentro come in una cantina, un ripostiglio, una ventiquattr’ore abbandonata da decenni in un armadio. Tirandone fuori attrezzi inutili, grotteschi e non più funzionanti; sollevando la polvere; disturbando le vedove nere che si erano fatte un nido umido e fresco. Ma la polvere è la stessa che incontriamo nel deserto; gli incongrui attrezzi li abbiamo scorti ai lati delle vie carovaniere, e se non li cancelliamo, non li correggiamo come automaticamente si corregge un refuso, nell’uno e nell’altro caso sapranno darci una visuale sorprendente e rivoluzionaria, sapranno gettare nel marasma consuetudini e aspettative.
Chi sono io? Il protagonista di un racconto (post)moderno, che sale su un volo di linea e di lì a poche ore calca un diverso continente, in una diversa stagione, comunica in un’altra lingua, svolge altre funzioni? O appartengo a una storia di mare, esploro oceani sconosciuti su gusci di legno spinti da vele di stracci, negli anni in cui chi doppiava un capo, attraccava a un’isola, varcava uno stretto, poteva affiggerci il suo nome come una bandiera, diventare punto di riferimento su una mappa, partecipare della geografia del globo? Devo scegliere? Non posso dire che sono entrambi, che solo questa dualità, questa pluralità fa giustizia a quel che vuol dire essere me stesso? In me ci sono l’efficienza, il rigore, la puntualità di un volo di linea, e insieme, a dispetto della contraddizione, a causa di essa, c’è il piacere di perdersi per un mare sconfinato, lasciandosi cullare da un’eterna bonaccia, da una calma piatta in cui il tempo sembra avere fine e quindi il tempo, infine, può iniziare. E queste voci, questi caratteri non si alternano sul proscenio, non si fanno reciprocamente e discretamente posto; si spingono, si danno di gomito, litigano per essere la mia voce, il mio carattere. La vera lotta, la lotta trascendentale, si manifesta così in modo cristallino.
Finché il viaggio avviene nello spazio, si presume che la pace sia almeno possibile: che i diversi personaggi con cui potrei identificarmi, i diversi punti di vista da cui potrei collocarmi coesistano senza rubarsi aria e luce. Lo spazio ha più dimensioni, quindi ha spazio, appunto, per ciò che è più. Ma il tempo di dimensione ne ha una soltanto: se una posizione è occupata da qualcosa, non è disponibile per altro. Se io sono X, non posso essere Y, nello stesso tempo. Posso esserlo stato, o essere per esserlo (niente infinito futuro in italiano, ahimè – come potremo allora giurare, promettere, sperare?); ma in quanto a quel che sono non c’è alternativa. Quindi è nel tempo che il mio molteplice si rivela con ruvida chiarezza, come la canapa; è nel tempo che la mia anima si scopre anime, al plurale, presenti insieme, presente insieme, contendenti nella lotta che io sono, nell’ossimoro che è la mia natura. È in un singolo istante che il mio velivolo di metallo rombante si scontra con le mie vele di stracci, negando che l’essere sia un’innocua giustapposizione, che sia stato; dichiarando arrogante che ha luogo invece su una capocchia di spillo, in un punto privo di lunghezza, larghezza e profondità – là dove danzano gli angeli, in numero innumerevole. Gli angeli che da lontano rimirano le mie vele di stracci, senza poggiare i piedi per terra perché sono in viaggio, perché poggiano su una capocchia di spillo, e senza dirigervi sopra lo sguardo, senza tentare il maledetto eye-contact perché in viaggio si vede sempre lateralmente, sempre di straforo, sempre per sbaglio. Perché è sempre così che si vede; il contatto oculare è la scusa di chi non ti guarda, di chi non vuole guardarti.
È in un singolo istante che quello stesso velivolo apparirà, eccentrico, là dove il tempo cronologico, il tempo che ha colonizzato il tempo e lo ha ferito forse mortalmente, ci ha abituato a scene pittoresche: mostri assaliti a mani nude, calici a profusione in un banchetto, mogli altrui deflorate con l’inganno. Un’orbita è eccentrica se il suo centro reale è diverso da quello apparente; il fuoco apparente della nostra visione, qui, è errato. Non stiamo guardando un vaso in un museo, vagando fra teche linde e ordinate sotto l’occhio vigile dei guardiani; stiamo assalendo un mostro che vuole costringerci a vagare fra teche linde e ordinate un giorno dopo l’altro, in meticolosa deferenza al calendario, e lo facciamo a mani nude, di quella nudità originaria, archeologica che non è assenza di vestiti ma coraggio di essere, senza motivo e senza scusanti. Di essere sincroni, simultanei, autori di una sintesi che è intrinsecamente scandalosa.
Gli eroi sono lo scopo del viaggio. Non la meta, perché il viaggio non ha meta. Chi vuole raggiungere una meta penserà all’Olimpo, alla trasfigurazione e transustanziazione, al divenire altro, alla fine della storia, alla sua morale. Chi viaggia sa di essere altro, sa che ogni storia è la sua stessa morale, in quanto non finisce, in quanto percorrere la storia, senza fine, acquista la dignità di uno scopo. Quindi gli eroi sono sempre in via di formazione, durante il viaggio: abbozzati, frammentari, indistinti. Ciechi, perché solo chi è cieco può vedere. Il loro eroismo non è quello di un’epica: non tornano alla loro famiglia e ai loro affetti (a ciò che è affettuoso e familiare) dopo anni di guerra, dopo essere scampati a tempeste e naufragi, per vivere felici e contenti, amati e onorati. È, invece, l’eroismo di una tragedia, di un dilemma insolubile—anzi un multilemma: un’irrimediabile molteplicità di discorsi. La loro guerra è eterna; la tempesta e il naufragio sono la loro realtà, cui non sfuggiranno e non vogliono sfuggire. Non ci sarà per loro un’ultima pagina, un ultimo verso; dopo ogni pagina il vento continuerà a soffiare, la chiglia a inabissarsi fra le onde, continueranno le sortite contro l’assedio, contro le imboscate, contro il fuoco incrociato, contro il fuoco amico. Andranno incontro al futuro con una forza che è pazienza e gentilezza, uomo e donna quali sono: uomo davvero perché donna, perché solo la pazienza e la gentilezza femminili indicano davvero la cifra dell’umanità. (Homo non è vir; anche questo dovremmo ricordare; Virgo homo, dice Anselmo nella sua preghiera a Maria.) Il viaggio realizza gli eroi, nell’unico senso plausibile di realizzazione, perchè una realtà che si ferma, che termina la sua crescita, che esaudisce il suo desiderio, non è più tale.
Il viaggio scrive. Per il viaggio il mondo è un foglio di carta bianco, anche se è costellato di segni, cosparso delle tracce di altri passaggi, di altri viandanti. Chi viaggia deve superare l’irritazione che gli danno quei segni e quelle tracce, arrivare al punto di non più vederli, sbiancare il mondo con la sua cecità e scriverci parole nuove, cioè scriverci: quel che non è nuovo non è scrivere. Scommettere su un’essenza, accettare la responsabilità e la colpa di un impegno arbitrario, puro frutto di arbitrio, di volontà, inesistente se non per un’azione libera, che avrebbe potuto essere diversa ma non lo è. Accettare la propria parzialità, il proprio carattere fittizio (fatto, costruito, non dato) e viverli con orgoglio. L’orgoglio che ci ha fatto perdere il paradiso, che ci ha fatto uscire da un giardino chiuso (hortus clausus, dove si pratica la virtù dei codardi) e protetto dallo sguardo vigile del guardiano e partire per il viaggio, esposti alle intemperie, portatori di peccato e d’ingiustizia ma attenti a tutti i diversi peccati e ingiustizie che sono lo spazio e il tempo del viaggio, consci che la giustizia adulta, la giustizia umana, si ottiene solo chiamando tutti questi diversi peccati a raccolta e a confronto, non respingendoli, lasciando che ognuno scriva la sua storia – una storia che è sempre un’apologia, che è sempre, anche, un’assunzione di colpa. Il mondo è un palinsesto in cui ogni tratto è il primo, in cui essere il primo tratto, non essere già stato scritto da ogni (altra) cosa, da ciò che è (stato), è il senso stesso del mondo, quel che vuol dire essere mondo fuori dai confini artificiosi e infantili dell’Eden. In cui di originario c’è solo il dibattito sull’origine, di potere e forza c’è solo un fiducioso abbandono a quel che il paesaggio saprà mostrarci, di passato e futuro c’è solo il presente, un presente che comprende il prima e il poi, un prima e un poi cui siamo presenti. Di quiete c’è solo la risoluta determinazione al viaggio.
Dunque solo il viaggio ritorna, ripete. Perché gli stessi oggetti o eventi non sono mai gli stessi; perché solo altri oggetti o eventi, nuovi, possono essere gli stessi. Solo un altro posto, un posto estraneo, può essere ancora la nostra casa; solo allontanandoci riusciremo a essere vicini. Solo perdendoci di vista ci vedremo; solo smarrendoci ci troveremo; solo inoltrandoci nella notte faremo, per una volta e per un attimo, luce. L’unica luce disponibile, scintilla fioca nell’ombra.