Cinzio ha parlato giustamente dei limiti di una solidarietà basata sulla tolleranza, quindi in ultima analisi sull’indifferenza reciproca. Qui di seguito potete vedere un mio articolo, uscito oggi sul Sole, in cui si suggerisce un diverso tipo di solidarietà.
A che cosa serve la storia? Mi sono posto questa domanda mentre percorrevo The Great Leveler di Walter Scheidel, professore a Stanford, che prendendo le mosse dal best-seller di Thomas Piketty risale ben più indietro del XVIII secolo per mostrare che un’estrema disuguaglianza di risorse e di opportunità è stata una caratteristica costante del nostro passato. Leggiamo così di scimmie antropoidi che sono «creature intensamente gerarchiche», di cimiteri del neolitico in cui solo l’8% degli scheletri è adorno di conchiglie, di notabili sumeri che possedevano 1200 ettari di terra, di aristocratici del tardo impero romano che ricavavano 350 milioni di sesterzi l’anno dalle loro proprietà e di altri assortiti nababbi cinesi e ottomani, francesi e aretini, olandesi e tedeschi.
L’unico agente in grado di controbilanciare la tendenza al più indecoroso accaparramento (il great leveler del titolo), secondo Scheidel, è la violenza: non una violenza moderata o anche notevole quale la riscontriamo quotidianamente nella nostra vita associata ma una violenza in grande stile, che causa decine di milioni di morti e annienta intere economie. Siccome i ricchi, avendo di più, possono perdere di più, catastrofi del genere riducono differenze e ingiustizie, che comunque riprenderanno il loro corso appena le catastrofi saranno superate. Richiamandosi ai cavalieri dell’apocalisse, Scheidel declina la violenza in quattro piaghe di proporzioni bibliche: guerre, rivoluzioni, crolli dell’apparato statale ed epidemie. Per ciascuna di esse, iniziando con esempi significativi (le guerre mondiali, le rivoluzioni russa e cinese, la disintegrazione dell’Impero romano d’occidente e la peste nera), allarga poi la sua visione alle guerre dell’antica Grecia e della repubblica romana, alla rivoluzione francese e alle rivolte contadine del Medioevo, alla scomparsa della civiltà micenea e alla situazione attuale in Somalia, all’ecatombe di indigeni americani provocata dai microbi europei e a probabili antecedenti della peste nei tempi di Marco Aurelio e Giustiniano. Rilevando sempre le stesse regolarità: finché duravano il massacro e la sua eco, le condizioni di poveri e ricchi si riequilibravano (la crisi di manodopera provocata dalla peste, per dirne una, elevava i salari e deprimeva la rendita); appena le circostanze si normalizzavano, ritornavano il privilegio e l’abuso.
Il breve e altamente selettivo elenco di casi che ho citato dà un’idea dell’ambito sconfinato in cui si muove questo libro, e dell’ammirazione dovuta a Scheidel per la sua dottrina e il suo coraggio: consapevole del fatto che molti colleghi storceranno il naso davanti a simili voli pindarici, accetta il rischio affermando che l’acquisizione di una prospettiva globale esige slanci e collegamenti eterodossi. Rimane da capire che cosa i suoi slanci e collegamenti ci insegnino, e sullo sfondo rimane la domanda da cui sono partito. Che non ci siano limiti all’avidità degli esseri umani lo sapevamo, così come sapevamo che, se a tale avidità si accompagna il potere, il risultato sarà lo sfrenato lusso di pochi e l’abietta miseria di molti. Sapevamo che, quando il potere viene a mancare o slitta precipitosamente in una nuova direzione, chi lo esercitava e ne approfittava si troverà a mal partito (Bob Dylan dà una vivida illustrazione del tema in Like a Rolling Stone). Ora cose che sapevamo sono state documentate con ampia messe di dati e scientifico rigore. E allora?
Fra le guerre del passato Scheidel descrive, ho detto, quelle dell’antica Grecia. In particolare, parlando di Atene, ricorda che, per respingere l’invasione persiana del 490 a.C., la città mobilitò il 40% dei maschi adulti, e per la successiva invasione del 480 l’intera popolazione maschile adulta. Questa linea di condotta le divenne abituale per secoli: durante la guerra del Peloponneso, nella successiva fase espansionistica, contro i macedoni. E Scheidel osserva che, per quanta incoscienza e cupidigia si manifestassero in continue campagne militari (Tucidide docet), esse ebbero un cospicuo influsso nel promuovere non solo una formale democrazia ma l’effettiva uguaglianza dei cittadini. Perché tutti servivano per il successo di un’impresa comune.
È solo un episodio, perso fra centinaia di pagine; ma indica con chiarezza il dilemma posto dalla mia domanda. Alla storia possiamo chiedere di confermarci, con dovizia di dettagli, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole: che ciò che sappiamo essere vero è anche necessario. Oppure possiamo cercarvi ispirazione: suggerimenti e modelli per un riscatto possibile. La storia ateniese suggerisce che, se ci sentissimo tutti coinvolti in uno sforzo comune, e tutti di importanza vitale per la sua riuscita, forse potremmo per una volta far tacere l’avidità. Chi fra noi pensa che la sperequazione selvaggia non sia un destino ma una colpa ne sarà spronato a concepire sforzi comuni che abbiano la capacità di coinvolgimento ma non le conseguenze distruttive di una guerra.