Qualche tempo fa Carlo De Benedetti, ospite a Che tempo che fa, esordì in modo promettente dicendo: «Al mondo ci sono due miliardi e mezzo di lavori e quattro miliardi di persone che cercano lavoro». Subito dopo il suo discorso si afflosciò nel solito appello competitivo a qualificarsi tecnologicamente per trovar posto in un campo così affollato, nel senso: come attrezzarsi al meglio per portar via agli altri quelle poche risorse che ci sono. Ma l’esordio era, appunto, significativo, perché metteva il dito sulla piaga: sulla disoccupazione come fenomeno globale, endemico e crescente.
Nella scienza esistono problemi, che si possono risolvere applicando in modo ingegnoso le teorie esistenti; un problema che richiese molti sforzi, per esempio, era il movimento del perigeo lunare nella meccanica newtoniana. Ed esistono anomalie, cioè stranezze che non si possono risolvere se non cambiando teoria: modificando radicalmente il nostro approccio al mondo. Il movimento del perielio di Mercurio era un’anomalia nella meccanica newtoniana, che fu superata, non risolta, passando alla meccanica relativistica. La piaga della disoccupazione, sostengo da un quarto di secolo, non è un problema che menti più brillanti di quelle finora in circolazione potranno risolvere nel quadro delle correnti teorizzazioni antropologiche ed economiche (che, grosso modo, vedono un essere umano guidato dai suoi bisogni e un’economia tesa a soddisfarli). È invece un’anomalia; detta altrimenti, è un sintomo che c’è qualcosa di sbagliato in quelle teorizzazioni. Come sempre in medicina, reale o metaforica, aggredire il sintomo serve a poco; nella migliore delle ipotesi, rimanda o sposta il disagio. Occorre invece curare il male: proporre una visione diversa dell’essere umano, delle sue condizioni e dei suoi desideri.
Il nostro attuale scalcinato governo, ultimo di una serie di patetici tentativi di (cattiva) salute pubblica, ripete il mantra condiviso da sindacati scaduti come i medicinali, banchieri corrotti e imprenditori grifagni: bisogna incoraggiare la crescita. Cioè: bisogna rimanere ciechi al fatto che il lavoro «produttivo» ha fatto il suo tempo, che ormai può solo produrre oggetti che non ci servono da comprare con soldi che non abbiamo, e che la nostra dignità personale, in questo modello di sviluppo, è fondata sulla nostra complice partecipazione a un simile casinò planetario. Ci sono voci contrarie, certo, prima fra tutte quella dell’ex-comunista riciclato Latouche che propone la decrescita, come altri hanno proposto i limiti; e sono voci senza speranza perché la vocazione dell’essere umano è infinita e mai saprà accontentarsi di un recinto, di uno steccato. La sfida è, invece, quella di proporre una crescita senza limiti, ma non di «beni» concepiti come oggetti di consumo: di competenze, di abilità, di ricchezza spirituale e umana.
È questa la sfida che vorrei affrontare con voi. L’ho condotta, fra l’altro, in Oltre la tolleranza (Feltrinelli 1992; poi Bruno Mondadori), Manifesto per un mondo senza lavoro (Feltrinelli 1999; poi Edizioni per la decrescita felice) e Parole che contano (Mondadori 2004). Non credo di avere tutte le risposte, ma ho molte domande e qualche idea; e le risposte potremmo cercarle insieme.
Eugenio Spreafico says
June 5, 2017 at 6:03 amCarissimo Ermanno, complimenti per quest’iniziativa; e in bocca al lupo! Lo dico volendo essere tuo compagno di viaggio nel mondo, non più nuovo ma a me ancora in gran parte sconosciuto, del web. Imparerai strada facendo, hai scritto. Impareremo, aggiungo, corroborato dal fatto che leggere (soprattutto), scrivere (in misura senz’altro minore), comunque dialogare possono far solo bene ed essere anche di stimolo al confronto con (oltre che attraverso) nuove modalità di comunicazione. Saluto anche gli altri partecipanti che hanno già fornito elementi di riflessione.
Renza says
June 2, 2017 at 7:27 amUna bella sfida, caro professore. Necessaria ed impellente, come è necessario
” cambiare teoria” e abbandonare la vulgata per cui ” tutto ciò che è reale è razionale” e dunque così è sempre andato il mondo…
D’ accordo che tempora mutantur ma, forse, fermarsi significa non perdersi bensì chiedersi se la direzione che i tempi hanno preso sia necessaria o no.
Quindi è utile errare in questo territorio- del lavoro- e in altri, con l’ ausilio di un pensiero aperto alla ricerca , un pensiero che non ci inchiodi a percorsi inevitabili. Grazie!
Tommaso Franci says
June 2, 2017 at 5:58 amApprendo ora questa dichirazione di Trump, che riporto a conferma di quanto stavo accenando: l’accordo sul clima di Parigi costerebbe agli Stati Uniti posti di lavoro che “non possiamo permetterci di perdere”.
La logica – qui espressa da Trump – è illogica due volte, a partire dalle premesse su accennate.
Una prima volta, perché intende il lavoro ancora in termini fordistici o giù di lì.
Una seconda volta, perché trascura l’inevitabilità ambientale.
Le due assurdità sono però connesse. Sarebbe interessante, se non vitale – lo è stato fatto, a fondo? – indagare, nelle cause e negli effetti, come.
Quale avvio d’indagine potremmo ipotizzare che lo siano per il fatto che: al modo in cui organizziamo il nostro tempo, basandoci per lo più non sul gioco-filosofia ma sulla distruzione del gioco-filosofia, così (ed anche a seguito del non giocare filosofando) distruggiamo l’ambiente, anzitutto con l’ignorarlo (in un’ignoranza che potrebbe avere molto a che fare con quella che subisce il gioco-filosofia). Ford, citandolo per sineddoche, così come distrugge la vita dei lavoratori, distrugge quella dell’ambiente, in una reciprocità causale, e non casuale, fra i due ambiti. Ed a partire da una mente e cultura non ecologiche. Non Gorz o Bateson.
Alfredo says
June 2, 2017 at 1:20 amSpunti interessanti su cui riflettere. La crisi del lavoro è il problema della società attuale, e sono d’accordo su Latouche, la sua decrescita felice mi sembra più una sconfitta felice.
Tommaso Franci says
June 2, 2017 at 1:00 amEsordisco anch’io con i migliori plausi ed auguri per questa nuova e graditissima iniziativa del prof. Bencivenga.
Il tema del primo post lo considero – socialmente parlando – un po’ il tema dei temi.
E su di esso, cito il fiorentino Bartali: “l’è tutto da rifare”.
Essendo fra coloro che hanno inaugurato la Generazione Y (conosciuta anche come Millennial Generation, Generation Next o Net Generation), sono vittima di un’insoddisfazione lavorativa tendenzialmente massima; d’avere cioè vissuto per 25 anni in funzione di un’attività e di essere poi stato costretto a svolgerne, con coercizione più o meno da schiavi, un’altra.
Quindi, anche personalmente, il lavoro lo reputo tanto quanto sembra che lo abbia reputato la Bibbia: addirittura l’effetto della dannazione umana dopo la cacciata dal Paradiso.
Il problema del Paradiso è che andava bene in quanto senza lavoro ma non in quanto senza filosofia. Il prof. Bencivenga – trovandomi totalmente d’accordo – vorrebbe un Paradiso in quanto senza lavoro (umanamente valorizzante) ma non in quanto senza filosofia; vorrebbe una rivoluzione copernicana consistente nel convertire il più possibile il lavoro non filosofico in lavoro filosofico o, detto anche altrimenti (per usare una caratterizzazione cara al prof.), in gioco.
Se questa, con tutta l’approssimazione del caso, è più o meno la posizione del prof., non ho molto da aggiungere: nel senso che mi trova totalmente d’accordo. Posso farne da megafono, portando a sostegno tutto il rancore personale del lavoro-piaga-d’Egitto che subisco.
(Dal punto di vista teorico cercherei, comunque, una connessione tra lavoro come viene tradizionalmente inteso e mancanza tradizionale d’ecologia e nuovo modo d’intendere il lavoro come nuovo modo di pensare e di vivere ecologico. Anche nei termini di André Gorz, il cui testo contro il lavoro rimane antesignano e fondamentale, quanto trascurato.)
Nel 2011 scrissi un testo su “Potere e prostituzione nell’Italia di Berlusconi”. V’è un capitolo dedicato a questa tematica. Mi permetto di segnalarlo. Insieme ad un altro, dal titolo: “Otto ore schiavi. Con un’appendice sull’eliminazione della domenica”
http://www.tommasofranci.it/potere-e-prostituzione-nellitalia-di-berlusconi-retrospettiva-filosofica-per-un-futuro-con-almeno-qualche-stella/
http://www.tommasofranci.it/wp-content/uploads/2014/12/Otto-ore-schiavi-.pdf
Robert M. Metzger says
June 1, 2017 at 8:29 pmPer farla in breve: la disoccupazione e il malessere conseguente sono causati da cambiamenti tecnologici (negli USA oggi l’8 percento lavora in manifatttura, contro il 35% al suo zenith, negli anni 1950-1960). La produzione e’ stata parzialmente esportata in Asia e in gran parte robotizzata. Conseguenza per EU ed anche per USA e’ che la classe operaia di “medio ceto” non puo’ piu’ trovare impiego “manuale”: adesso deve sapere far funzonae i robot. Fra 4 anni circa, gli autofurgoni saranno robotizzait, e i camionisiti del “Teamsters’ Union”, oggigiorno ben pagati, saranno il nuovo ceto disoccupato. Questo scovolgmento che avvenne 200 anni fa, continua ancora. Bisogna sapere fare altre cose, controllare i robot, inventare nuovi giocattoli, cose non filosofiche ma pratiche. C’erano i Luddites in Inghilterra 200 anni fa, , i saboteurs in Francia. Tutti furibondi. Ma tutti prima o poi si adattano a farsi utlili in modi nuovi, con tecnoligie nuove. Come educare i giovanii? Lasciali sognare un po’ ma bisogna convincerli di scegliere una carriera che sia interessante, ma che paghi almeno abbastanza per le 40 ore principalii della settimana lavorativa. Diamo pure il vecchio Trivio e Quadrivio, ma insegnarno a loro la programmazione con computer. Gli i-phone ecc. non sono strettamente essenziali per la vita, ma qualcuno ci ha convinti di comperare l’i-phone e di trovare nuove attivita; precedentemente impensate.
Tempora mutantur et nos mutamur in illis.
Chi si ferma e’ perduto.
mara says
June 1, 2017 at 12:48 pmEgregio Professore,
con grande piacere scopro il Suo nuovo blog e la ringrazio per questa iniziativa che sono certa darà a me, come a molte altre persone, la possibilità di riflettere insieme e promuovere uno scambio stimolante su molti argomenti attuali ed urgenti. Un ottimo modo per abbreviare le distanze che la carta stampata necessariamente pone.
Non mi resta che augurarLe buon lavoro e lunga vita a questo blog.