Raccolgo l’invito di Renza e, rimanendo inteso che questa può solo essere la mia prospettiva e altri possono integrarla o contraddirla, inizio con le osservazioni più generali. Che cosa vuol dire essere, e anche essere umani? Quando sono io? Quando trovo la mia realtà, mi realizzo? La risposta più comune, e per me errata e pericolosa, è: quando conseguo un mio scopo, colmo una mia lacuna, soddisfo un mio desiderio. Questa risposta dà luogo a un’ontologia e un’antropologia dei bisogni, in cui l’essere (umano) è (ahimè) costantemente turbato dall’emergere di tensioni, perché qualcosa gli manca, e l’ideale da raggiungere è l’allentamento di ogni tensione, il ristabilirsi della pace. Siccome la pace perfetta è la morte, nel modello fondato su questa risposta l’essere e la realizzazione si identificano con la morte, mentre la vita, l’attività sono associate a una condizione di disturbo dell’essere e di risoluzione del disturbo. (Pensate a Freud: al principio del Nirvana che secondo lui domina la psiche.) Quindi è sempre il bisogno a muoverci (altrimenti continueremmo a giacere inerti) ed è sempre il bisogno a unirci: io sto con te perché ho bisogno di te, perché il mio bisogno può saziarsi solo attraverso di te. Per farci muovere, è necessario moltiplicare i bisogni: non solo di cibo e di un tetto ma anche di un televisore o di un cellulare, e nella vita contemporanea, in cui la comunità (non i suoi singoli membri, perché la comunità è gestita in modo irragionevole) sembrerebbe in grado di annullare il bisogno, il bisogno invece impera e noi tutti siamo paradossalmente più, non meno, impegnati a soddisfarlo.
Proviamo a pensare invece che sia l’attività a costituire l’essere (umano): l’attività fine a sé stessa, condotta per il puro piacere di condurla, il gioco. Io sarò allora legato a te non dalla necessità ma dal piacere, lo stesso piacere con cui noi tutti adesso partecipiamo a questa discussione, perché insieme si gioca meglio e ci si diverte di più. Proviamo a pensare a una comunità che affronti e risolva con un modesto sforzo comune i pochi, autentici bisogni dei suoi membri e poi liberi e incoraggi l’espressione della loro attività e creatività; a un lavoro che non sia negato o invece (paradossalmente) imposto come schiavitù produttiva in ogni istante della nostra esistenza ma invece ridefinito come autentica realizzazione di sé, a un lavoro/gioco che consista, per ciascuno di noi, nel conversare o nel dipingere, nel filosofare o nel cucinare, e che come in ogni situazione ludica nessuno voglia mai interrompere perché gioco e piacere nessuno li vuole interrompere. Proviamo a pensare a un essere che sia vita piuttosto che morte e a come organizzarci per promuoverlo. Marx allude a una condizione del genere in poche righe dell’Ideologia tedesca, ma si tratta di un’indicazione del tutto estranea al suo modello, che (come ho cercato di dimostrare nel mio Una rivoluzione senza futuro) era del tutto schiacciato sull’ammirazione del capitalismo e quindi su un’antropologia dei bisogni. Non a caso quell’indicazione, per quanto ripetutamente citata da quanti volevano vedere nella sua opera un’ipotesi di liberazione, è rimasta in lui priva di ogni sviluppo ed è stata puntualmente disattesa nei regimi che a lui si sono ispirati. Noi invece dovremmo praticare tanto pensiero comune per elaborare i dettagli di un’ontologia, un’antropologia, un’economia e una politica della vita, dell’attività e del piacere. Io qualche paletto l’ho messo, in Oltre la tolleranza, Manifesto per un mondo senza lavoro, Parole che contano, Il piacere: indagine filosofica e Filosofia in gioco; ma fra questi paletti, o anche con essi, vi invito a giocare insieme.
Tommaso Franci says
June 12, 2017 at 12:20 pmEntro una prospettiva, quale quella di questo e del precedente post di Ermanno, che sento profondamente anche mia, provo, in maniera saccadica, ad aggiungere qualcosa. Partendo anche da esperienze personali, che però possono forse avere una valenza più generale.
1. Nel lavoro come gioco e nel gioco come studio e/o dialogo socratico, il problema (e la mancanza di democrazia e l’ingiustizia all’insegna di una malintesa logica del merito) è l’ammissione. I primi ad escluderti sono quelli che dovrebbero essere i giocatori migliori: gli studiosi, che poi si identificano con i professori, con professori troppo poco socratici. Insomma: se uno vuole vivere giocando, oggi, deve stare da solo; è costretto. Con i professori, la maggioranza, non ci si può stare: o perché non giocano o perché non ti fanno giocare. Obiezione: per giocare bisogna rispettare delle regole. Sì, ma il gioco di Socrate non era proprio quello di avere regole costruire su palafitte? Per questo, anzi, decise di morire.
2. I giovani sono vecchi. Perché – per lo più – non giocano (certo anche per colpa dei professori, a loro tempi giovani-vecchi) I loro giochi sono espressioni istintive. Basati su quello che chiamano ‘piacere’. Anche per questo, se trovo corretta la crociata (esagero i termini) contro il soddisfacimento dei bisogni, ritengo debba essere fatta una anche contro il ‘piacere’. Ma dirà Ermanno se richiamo qui a sproposito il ‘dovere’ kantiano, associandolo a quello di Dante, Aristotele o Linneo per i quali dovere dell’uomo è essere – anche socraticamente- ‘sapiens’.