Sono diventato adulto negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, quando sembrava inevitabile che il mondo andasse in una direzione progressista: che crescessero libertà e uguaglianza, che miti e riti religiosi stessero precipitosamente decadendo, che creatività e fiducia in sé stessi e nella comunità fossero la nuova cifra del quotidiano. Poi tutto questo, quasi da un momento all’altro, è finito: in Inghilterra è arrivata la Thatcher, in America Reagan, in Italia il craxismo e la Milano da bere. Da allora sono passati quarant’anni e, quali che siano stati gli errori fatti dalla mia generazione, gli errori marchiani e i crimini nefandi compiuti in tutto questo periodo li eclissano all’estremo. Eppure nessuno sembra pensare che ci sia qualcosa di sbagliato, nel modello intendo, non nelle persone. E allora lo dico senza mezzi termini, senza «se» e senza «ma»: io sono un sessantottino mai pentito. Gli ideali di allora sono sempre rimasti i miei ideali: un nuovo rapporto fra lavoro e cultura, un nuovo internazionalismo, una nuova politica sociale e sessuale – nuovi nel senso di profondamente diversi da tutto quel che mi vedo intorno. Quel che è cambiato, per me, in tempi così duri, è stato lo sforzo che ho fatto, insieme con altri, per elaborare un pensiero che possa far giustizia a questi ideali – lo stesso pensiero che vorrei continuare a elaborare qui con voi.
Come ho già fatto una volta, copio qui un articolo pubblicato qualche settimana fa sul Sole, legato a quanto ho appena detto.
All’inizio di Exit Right, Daniel Oppenheimer scrive: «la fede politica dev’essere guadagnata con duro lavoro. Deve mostrare le prove di essersi confrontata con l’abisso, la consapevolezza che i suoi fondamenti sono quanto ci sia di più contingente». Il tema è kierkegaardiano: la fede (in Dio, ma anche in una persona o in una causa) consiste in un assoluto e gratuito abbandono nelle mani dell’altro, dal quale ci si aspetta di ricevere il senso della propria vita. Il cavaliere della fede, di cui Abramo è, per Kierkegaard, l’esempio più alto, sa che questa scelta potrebbe essere diversa, che è fatta senza nessun motivo, che siccome è immotivata e irrazionale è assurda, ma ciò non gli impedisce di rimanere serenamente con i piedi per terra, facendo quel che la fede gli chiederà: il sacrificio di quanto ha di più caro, forse, oppure la vita oscura e modesta di un postino o di un agente delle tasse (gli esempi sono da Timore e tremore). Perché quel che conta non sono la sua visibilità o il suo ardore; è il profilo che la fede, di volta in volta, disegnerà per le sue azioni e i suoi sentimenti.
Molti fra noi, in età giovanile, hanno sentito il richiamo e il fascino di una lotta a favore degli oppressi e si sono definiti progressisti, ribelli, di sinistra. Poi il tempo ha fatto il suo corso e ha rivelato che si trattava spesso di una mescolanza di sfogo ormonale e opportunismo, e le direzioni principali di sviluppo sono state due. Da un lato si sono formati gruppi compiaciuti, salottieri, autoreferenziali, che hanno continuato a cavalcare ogni moda con la stessa presuntuosa vacuità e ti hanno messo in profondo imbarazzo quando i reazionari (che non sapevano e non capivano nulla, ma mantenevano la loro furbizia da strada ed erano perfettamente in grado di castigare i cialtroni) irridevano al loro patetico radicalismo e tu pensavi con tristezza che avevano ragione. Dall’altro si sono aperte ampie autostrade per i pentiti: coloro che avevano fiutato il vento e avevano deciso di vendere l’anima al mercato (libero, s’intende) per trenta denari, o per una comparsata televisiva.
Exit Right racconta sei storie di tradimento e di abiura (da sinistra a destra), includendo chi ha trasformato (in peggio) il mondo come Ronald Reagan e chi è rimasto una tetra nota a piè pagina della storia: Whittaker Chambers, membro del partito comunista americano e spia sovietica, noto per aver testimoniato contro il complice Alger Hiss. Perlopiù sono intellettuali: scrittori, editorialisti, direttori di riviste culturali, rappresentanti di una raffinata chiacchiera di New York, Washington o San Francisco (quella newyorkese manda a tutt’oggi in estasi i molti fan di Woody Allen) con la quale, a un certo punto, hanno interrotto ogni rapporto. C’è James Burnham, leader del movimento trotskista e poi collaboratore del più eminente (si fa per dire) periodico di destra americano, la National Review. C’è Norman Podhoretz, enfant prodige dell’intelligentsia ebrea e responsabile a trent’anni della sua espressione editoriale Commentary, poi fra i leader dei neoconservatori e fautore della seconda guerra in Iraq. C’è David Horowitz, amico delle Pantere nere e poi oppositore a gran voce delle riparazioni dovute ai neri per la schiavitù. C’è Christopher Hitchens, spina nel fianco di ogni manifestazione di autorità e di arbitrio finché, colpito sulla via di Damasco dall’attentato alle torri gemelle, divenne l’ennesimo sostenitore dell’interventismo di George W. Bush.
Le cause che Oppenheimer identifica per queste rivoluzioni copernicane sono diverse. Si va dalla noia per la routine e dall’orrore per la volgarità dei compagni di viaggio nel caso di Chambers ai dissapori con Trotsky nel caso di Burnham, dal desiderio di trovare un ruolo sociale degno di un attore protagonista per Reagan alla pessima ricezione di un suo libro per Podhoretz, dall’incapacità di far ascoltare le sue critiche interne per Horowitz al ritorno al patriottismo delle origini paterne per Hitchens. Ma, per ognuno di loro, un elemento s’impone con chiarezza: la sconfinata ambizione personale, il bisogno di trovare uno spazio per sé stessi, di assecondare gli eventi a proprio uso e consumo invece di giudicarli, corteggiare il successo invece di progettare il futuro. Mi capita, in America come in Italia, di guardare giovani che si presentano in pubblico e si dichiarano conservatori, discriminatori, elitari, razzisti. Trasecolo, e mi domando che cosa ci sia in loro di gioventù: di calore, di affetto, di solidarietà. Poi mi rendo conto che, come per i personaggi di Oppenheimer, it’s all about them: la politica non c’entra. Con la medesima convinzione e la medesima spocchia potrebbero fare pubblicità a pannolini, o vendere derivate, o annunciare esoteriche filosofie. E poi cambiare padrone, quando cambia il vento, perché hanno un motivo per farlo: perché stanno sempre e comunque promuovendo sé stessi. La fede, politica e non, è un’altra cosa.
Renza says
July 5, 2017 at 6:58 pmMolto semplicemente trovo perfetti l’ articolo di Ermanno e la presentazione del medesimo O almeno io li trovo tali perchè condivido ogni sua riflessione.
Non è vietato cambiare idea, purchè ciò avvenga con la forza del logos e non con la spinta della promozione di sè. Sono tempi duri, convengo, in cui il pensiero è stato sostituito dalla merce. E manca un nuovo pensiero che disegni altri profili.